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23 mai 2014 5 23 /05 /mai /2014 21:33

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23 mai 2014 5 23 /05 /mai /2014 21:30

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25 février 2013 1 25 /02 /février /2013 22:59

Su una cosa si può giurare sin d'ora : che, quale che sia il risultato che ''esce dalle urne'' come esito di questa tornata elettorale, quale che sia il risultato, per così dire, contabile, per la 'gente comune' le cose continueranno a muoversi secondo traiettorie che rispondono a tutt'altre logiche.


Va detto subito, che a chi scrive qui ''di corsa'' (e spiego appresso perché), insomma, ''al sottoscritto'' – e credo proprio di non essere il solo, né fra pochissimi altri – questa tornata quantomai grottesca e sinistra. Oserei dire, ''quant'altre mai'', a memoria diretta, essa ha superato 'in blocco' i limiti dell'indecente e del malato – potremmo dire, che il vaniloquio generalizzato, il coacervo di 'cattivi delirî' decerebranti che ha bombardato i cranî, va oltre una sensazione paradossalmente ordinaria di orrido ; lascia, in aggiunta, come retrogusto una sorta di turbamento, qualcosa che potremmo definire uno 'sgomento antropologico'...

Insomma : questo è pensato, 'sentito', detto fuor di ogni punto di vista critico-critico, pur sempre a rischio di arrovesciarsi in messa in forma 'dottrinaria', e in esercizio di rigore critico-etico che però resta incapace di 'farsi comprendere' fuori di una cerchia già in sintonìa, e di propagarsi ; fuor dell'esibizione di ''giusti principî'' in generale validi sempre – su illusionismo e illusione elettorali ; su «élections, piège à cons», 'trappola per fessi' ; sull'alienazione politica nella sua forma dispiegata ; sul furto continuato, anzi confisca, o piuttosto inibizione in radice, d'ogni capacità di dispiegare l'energia, la potenza di vita «persistenza nel proprio essere» in capacità d'autonomia singolare/comune, in comunanza, in forme di vita, di cooperazione, di azione diretta , che sfuggano all' intrapresa di anomizzazione che costituisce il terreno di una produzione e riproduzione di eteronomia...


Forse come non mai in modo così evidente prima, questa «campagna elettorale» ha già dispiegato la sua nocività 'come campagna', ''nell'epoca della riproducibilità tecnica'' ad infinitum dei veleni, peggio, nella strage delle parole, nello stupro semantico continuato che ha perpetrato, nella diffusione di logopatìa, di ''immuno-depressione'' mentale, pratica – etica, sentimentale... – che è andata spargendo e contagiando come peste.


Sarebbe errore liquidarla con altera sicumèra come bolla di sapone di effimere frivolezze, inezie, labili fuochi fatui sullo schermo di un mero 'spettacolo di spettacolo/ di spettacolo' : prim'ancora dei risultati del ''gioco'', è il gioco in sé che ha avuto una sua devastante incidenza. Quanto agli esiti all'interno del 'gioco' : l'uno o l'altro, o l'altro risultato ancora (le diverse combinazioni e figure possibili in infima postribolare imitazione di Kamasutra prêt à porter nelle partouze di politicanti, sicofanti e lenoni da Basso Impero, ognuno con i proprî legami a doppî, a tripli fili con altri strati, gruppi, reti, ceti, societas scelerum, funzioni, ordini, «poteri», fazioni, cosche variamente concorrenti – all'occorrenza a morte, questo non contraddice il «correre assieme», ''eguali & contrarî'', in medesima natura, medesima logica, funzionamento sistemico –, che compongono quella che ama definirsi «classe dirigente»), avranno incidenza, eccome!, sugli affari loro, sul ridisegnarsi della topografia dell'arcipelago dei cosiddetti poteri, pubblici/privati, «forti» e meno, legali, illegali, ibridi ; poteri di denaro/comando (reciprocamente costitutivi, in spirale viziosa di cause/effetti) : miserabile compenso al fatto di esser tutti assieme come delle anime morte, come degli zombi, sospinti e trascinati dalle più infime pulsioni che li fanno dipendenti, come il più estremo portatore di ''scimmia'', dominato da questa o quella addiction, che diviene come sua ultima «natura».


Quel che è certo, è che il baccanale sulla governance, e la volizione di governamentalità, proseguiranno nel concorso d'insieme al prodursi di un gorgo a vorticosità crescente, e nell'illusione di uscirne producendo e riproducendo, intensificando la guerra sociale ''dall'alto'', in quella che è stata definita «rivolta dei 'ricchi' contro i 'poveri'», che al fondo si nutre di una insopprimibile implacabile invidia da già morti contro i vivi, contro la vita stessa, la – seppur il più spesso disperata – vitalità, potenza come «persistenza nel proprio essere», malgrado tutto tuttora irriducibile.


 

Abbiamo potuto sentire, fino alla nausea, i berci, i rutti i peti e gli sghignazzi, l'ipocrisia e la sfrontatezza, le melensaggini, la strage delle parole, lo stupro semantico continuato, la riduzione del pensiero a propaganda, la semina contagiosa di «passioni tristi», la disseminazione di malanimo e basta, il double bind di lamentazione, indignazione, denuncia, continuamente attizzati e sempre frustrati dalle propagande rispettive, dai manicheismi speculari e reciproci, dai negazionismi riflessivi e dalle esportazioni proiettive di colpa, di messa in debito, di avvinghiammento nella corsa al palmares della legittimità ''vittimaria'', dai diversivi e depistaggi fatti di 'razzismi morali', di suggerite alienazioni 'legaliste', penaliste – tutto quanto concorre, insomma, a sviare ed appannare la critica, l'andare 'alla radice delle cose', dirottando e sviando su epifenomeni, ''parti per il tutto'' ; e spargendo solo «passioni tristi», risentimento, rancore, malanimo impotenti, costretti alla viltà, ad accumulare frustrazione che degrada in incarognimento, ''cazzimmme'' e basta, ridotti a rivolgersi alla faina affidandole le sorti del pollaio...


Ecco, tutto questo non è «la risata di un idiota» che si consuma in breve : ''c'è del metodo, c'è un senso in questa follìa'', che sparge una concreta pandemìa in accelerazione crescente.

 

Queste cose il sottoscritto voleva cominciare a dire, giusto un momento prima della chiusura dei seggi e dell'apertura delle urne e dello scatenarsi del chiasso delirante degli exit-poll e delle projezioni.

Non troppo prima, non foss'altro che per non dar esca, spunto, pretesto all'insopportabile (specie quando appare sofferta, 'in – atroce – buonafede'...), ricattatoria, recriminante feroce lamentela che, spinta dalla ricerca disperata/forsennata di pseudo-spiegazioni che evitino uno spietato esercizio di riflessività critica, e dunque ''va truann' '' maleficî, «destini cinici e bari», oscuri complotti di «forze oscure», sortilegî, capri espiatorî, di asfissiarti con un uso assurdo, superstizioso del concetto di 'profezia che si autorealizza'.

Non dare il minimo appiglio al riconfortarsi nel continuare, ricominciando sempre daccapo...

 

Però (mi si consenta, per una volta, di sospendere lo scrupolo che finisce per essere paralizzante, che mi attanaglia quando si tratta di responsabilità di scrittura pubblica, e di concedermi, per oggi e qualche giorno a venire, un piccolo gioco), ecco, vorrei dire senza alcuna 'precauzione', d'alcun tipo, un po' di cose, cominciando nell'attimo di époché tra una sinistra carnevalata e le successive...

Ho messo in circolo, coi 'mezzi di bordo', come abbiamo potuto, il testo di un estemporaneo, rapsodico ''volantone'' che, in tre-quattro Complici, siamo andati a distribuire – a rischio di qualche ''sbarbazzone'' – al comizio di Grillo e connessi « Cinquestelle » il 19 febbraio scorso in piazza Duomo a Milano.

Non pochi compagni ci hanno detto, « Peccato che, al solito, è lungo... ». Sappiamo che questa storia del lungo e difficile spesso (su questo i sopraddetti compagni & compagne per l'ennesima volta volevano metterci in guardia) funziona da alibi per l'inascolto, da capzioso pretesto per non prender quantomeno visione, per tenersi le orecchie ben tappate.


Ma... noi (pluralis, né majestatis né modestiæ, diciamo, ''d'imbarazzo'' …), evidentemente noi non sappiamo scrivere che così, non riusciamo a far meglio...

Ciò non toglie che alcune pulci nell'orecchio vorremmo continuare a metterle. Questa è una piccola, estemporanea serie, che irregolarmente continuerà lungo una settimana. Riserbate sconcerto e furori, per favore, al 'merito' – e lasciamo andare la ''forma''.


Devo chiudere, tempus fugit.... time out, stavolta di sicuro CONTINUA...

 

25 febbraio 2013 o.s. [continua --->

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25 février 2013 1 25 /02 /février /2013 11:16

Le stelle sono tante, milioni di milioni...

 

Noialtri che portiamo questo 'centone' di frammenti di una letter'aperta in forma di volantino che, in forma ben più compiuta, metteremo in circolazione nei prossimi giorni sui social network1siamo tra quanti sono fuori e contro la logica elettorale – la scadenza, e la campagna. Veniamo oggi qui, perché queste piazze del cosiddetto ''Tsunami-Grillo/5 stelle'' sono come un caleidoscopio, in cui c'è e si compone e scompone, si muove, 'di tutto'.

 

Chi è chi. Chi...

Assai probabilmente in questa piazza ci sono anche dei padroncini, «piccoli imprenditori» come quelli del Nord-est reduci dall'investimento leghista, il cui urlo di rabbia di impiccati del credito e del fisco, ignorati o ''usurati'' dalle banche, taglieggiati dai 'pizzi' dei prosseneti della ''[Onorata] Società Politica'' si fa sentire, anche dagli schermi televisivi ; ma francamente – nella 'selva oscura' della «complessità sociale» crescente –, questo non è problema nostro : d'altronde, la legittimità del profitto non è forse stata sempre argomentata dalle ideologie utilitaristiche come fondata sul ''coraggio di assumersi il rischio d'impresa'' ? […*]

 

… e chi

Ci sono però anche, in questa piazza, uomini e donne con cui ci siamo trovati, puntualmente, fianco a fianco in lotte, in resistenze, soprattutto locali : ad Acerra e altrove contro il circuito discariche/inceneritori ; in Val di Susa contro il progetto di Tav ;qui e là per un reddito d'esistenza. C'è chi urla la propria rabbia – oltre l'indignazione, la protesta e la denuncia, che spesso sono forme scadenti e dipendenti, effetto e a loro volta causa, di frustrazione – contro, certo l'inqualificabile, inenarrabile «casta» dei politicanti, dagli statisti, a cominciare dai vertici e, a scendere, andando a tutti i ''vassalli valvassori valvassini...'', cortigiani, giullari, prosseneti, sicofanti ; ma andando anche oltre, scavando più in profondità, tracimando in una messa in causa della «classe dirigente» (come in solido amano definirsi) intera. Alle piazze dello 'Tsunami-Grillo' ''dicono dalla regìa''che il loro limite è la protesta e non la proposta. Non è questo il punto, semmai è il contrario : ci sono troppi tentativi – anche maldestri e rozzi, come non mancano di far notare i ''supposti sapere'' – di misurarsi col terreno della governance – la governamentalità ; su politiche economiche, misure di regolazione sociale, «politiche pubbliche»... Proprio qui sta, per noi, l'errore nel manico : si resta alla fenomenologìa, agli epifenomeni, che finiscono per essere diversivi, depistaggi, che occludono il lavoro di scavo dell'analisi, della comprensione, della critica che punti ad approssimare 'la radice delle cose', cogliere i nessi, le 'leggi di movimento', la natura delle relazioni, dispositivi ed effetti, funzionamenti sistemici, costanti, concatenamenti di cause più generali e profonde. Per armarne la rivolta, la capacità di azione. È stato portato al parossismo dal compimento della «mondialità», della «modernità-Mondo» operato dalla «globalizzazione», il carattere di 'sistema mondiale integrato', tecno-economico-politico-strategico, che è costituito nel binomio capitalismo-forma Stato. I singoli governi, Stati, apparati istituzionali, e anche ceti, fazioni, reti, nonché ''cupole'' e cosche, sono dominati, determinati, mossi dalle tendenze inerziali di questo ''sistema''. Le più accanite delle controtendenze, dei soprassalti, dei contrasti, al fondo sono ormai sussunti dalle forme, divenute cogenti, necessitanti, ''naturalizzate'' e, si può dire, ''teologizzate'', di queste logiche. Sterminati insiemi umani da questi processi sono asfissiati, schiacciati, forzosamente inclusi ed espulsi al contempo ; reclusi e spinti ai margini degli 'standard' dell' ''umano''. E tra essi serpeggiano ribellioni che coltivano autoidentificazioni e autodefinizioni le più diverse, incessantemente producentesi, remake ultramoderni di passati o affioramenti di appartenenze, bisogni, investimenti ed ''economie'' d'ogni tipo, feticci, credenze i più diversi, ma tutti alla fine costretti nel labirinto, dentro lo spartito della 'macchina-Mondo' così come è prodotta e riprodotta, secrèta, da una specie di incessante ri-Genesi... Beninteso, non si tratta solo di una anonima « potenza impersonale » : ci sono anche ceti, gruppi e figure ''personali'' di quelli che comandano : quelli che utilizzano, ''spremono e buttano'', vampirizzano, schiacciano, vessano, opprimono, seminano infelicità a oltranza. Sono una specie di congerie di zombi, una ''classe morta'', una sorta di tènia con articolazioni locali, che si gonfia trasversalmente dentro il 'corpo' della specie umana, presentandosi in modo proteiforme, con frazioni e fazioni che la compongono che confliggono come sempre confliggono i concorrenti, anche 'a morte', ma legati da quel ''correre insieme''... [...*] Se, come scrive Machiavelli nel Principe, «non si governa senza crimine», è chiaro che il tasso di maleficio, di produzione di male-di-vivere, è consustanziale alle relazioni di utilizzazione, di comando, al principio gerarchico, a tutti i dispositivi miranti ad 'aspirare', 'succhiare' forza vitale, energia, potenza cioè «persistenza nel proprio essere», disperata vitalità delle genti, dei 'comuni-mortali'.

 

Dispositivi, miranti a confiscare questa potenza, ad inibirne un costituirsi indipendente, autonomo, in una comunanza interattiva, comunanza autonomamente costruita di singolarità dotate di riflessività, capaci di responsabilità comune, cooperazione, la cui libertà si alimenta di quella d'ogni altra singolarità (il che è tutt'altro che spontaneo, anzi, ''è la cosa più difficile del mondo''). Che si tratti di catene gerarchiche, di dominazione, sfruttamento, arbitrio, di 'potere di vita e di morte' su altrui, di sovrastamento, «legali» o «illegali», la natura profonda, il DNA, è lo stesso : analogie, denominatori comuni, fanno largamente aggio sulle specificità e distinzioni. E' sotto gli occhî di tutti come l'accumulazione, esponenziale, di denaro come chiave universale, e di facoltà di comando, è soggiacente a tutte le variazioni su tema. «Produzione di merci a mezzo di merci» (innanzitutto, della forza-lavoro, l'energìa umana erogata per unità di tempo [di vita]), e – come corollario ed estensione che si dilata con ritmi e proporzioni neoplastiche, metastatiche – illusionismo e autoillusionismo della ''produzione di denaro a mezzo di denaro'', sono legate ad una volizione in bilico tra il sogno (questo sì « nefasta utopia »....) di una produzione interamente automatica, a partire da macchine autocostruttive, e al contempo della contestuale reintroduzione, dove questo si era immerso, era sommerso, in quiescenza, di relazioni propriamente «servili»; pur in assenza di «schiavi» nel senso giuridico stretto di «beni mobili»... La divisa capitalistica del «chi si ferma è perduto», la spinta incessante all' estensione infinita di capitali, merci e mercati non può non pervenire a scontrarsi con il limite oggettivo della finitezza della terra su cui continuare ad operare prelievi (di risorse d'ogni tipo). La rarefazione, l'introflessione della produzione di merci sul terreno immateriale della «produzione di soggettività» e su quello della fibra stessa dell'umano , ne è conseguenza e forma tipica ; essa è altresì strettamente articolata con la finanziarizzazione crescente.


Tale processo sussume le politiche statali, ed economia & finanza sono divenute feticcio, idolo difronte al quale prosternarsi e, data la sua natura cannibalesca, portare sempre rinnovati sacrifici umani. Il capitalismo come religione, di cui parlava, sulla scorta di Marx, Walter Benjamin, oggi assume il volto implacabile di una teocrazia finanziaria, il cui dio supremo è anonimo invisibile, ed i suoi sacerdoti (come FMI, Banca Mondiale, BCE e giù digradando), la faccia pubblica. La spinta annichilante, cannibalistica dell'ultra-capitalismo in corso d'opera, sempre più nello spicchio di mondo in cui viviamo divora ricchezza socialmente prodotta, per restituirla moltiplicata ad una infima diffusa minoranza che asserve il pianeta trasformandolo in mercato per sé – la tendenza è a rendere il mondo tutto una sorta di immenso ''quarto mondo''. I fenomeni di illegalità criminale dei colletti bianchi, la loro metabolizzazione per una diffusione di controllo, sorveglianza, penalismo continui e integrali, sono effetto, congerie di epifenomeni di questa tendenza di fondo. Come scrive Giorgio Agamben, è effetto ottico illusionistico quello per cui la caduta di legittimità delle «classi dirigenti» deriverebbe dal tasso crescente di illegalità, di violazione delle regole : al contrario, il surplus di incessante ''delinquenzializzazione ulteriore'' di «caste» e super-caste che compongono l'upper class, tra il Politico e il ''Civile'', è piuttosto effetto di un preliminare e soggiacente svuotamento di legittimità.

Questo significa, in parole povere, che – a gradi diversi di assurdità e abiezione – tutte le proposte di ''riforma'', ''risanamento'', 'bonifica'' stante la permanenza dei fondamenti e presupposti delle logiche, dei 'principi elementari' della, diciamo così, ''civilizzazione capitalistico-statale'' moderna (in tutte le sue possibili varianti, variazioni su tema anche ferocemente concorrenti e confliggenti), nutrono un illusionismo che produce crescente sfacelo mentale, etico, generalmente 'antropologico'. Non stiamo qui per predicare «Unica soluzione, rivoluzione!».

 

Può anche essere che si sia già andati oltre il punto di non-ritorno, al di là del quale solo l'articolazione fra «una fine spaventosa» e «uno spavento senza fine» sembrano essere gli scenarî che dominano le previsioni sui ''nostri'' destini. Certo però che il retropensiero angoscioso, l'assillo dell'atroce sospetto che l'assurdo, nel senso, se si vuole, camusiano, sia ormai dilagante e pesi come una ineliminabile cappa di piombo sul presente e ogni pensabile seguito, non può essere accampato come base per una sorta di indifferenza e di sostanziale passiva acquiescenza, per disincanto che si fa disperazione. E questo, non tanto e certamente non solo per ripugnanza ad ogni possibile connivenza, ad ogni trasformazione del disincanto in moderno cinismo, e in paradosso di una sostanziale acquiescenza. Non solo e non tanto per ''rispetto di sé'', per non ferire e deludere alcuna persona compagna e amica, ''perché l'avevamo promesso''. Nemmeno solamente per lo scatto d'orgoglio di non volersi lasciar manipolare, decerebrare, abbrutire – a rigore, nel generale nonsenso, anche questa ambizione, questa resistenza potrebbero esser considerate fuochi fatui, vanitas, a loro volta senza alcun senso... Non si tratta solo di questo. E' che non ha senso lasciarsi manipolare da illusionismi d'ogni tipo, anche e soprattutto perché questi producono, per sovrammercato, delle abiezioni, delle infamie pratiche ulteriori, a oltranza, anche oltre la più orribile delle ratio. Possiamo vederlo in alcuni piani e casi particolari, che valgono in sé e hanno anche carattere paradigmatico. Beninteso, parliamo solo di alcuni, e in particolare di casi che ci troviamo a onoscere, e che implicano la nostra sfera di prossimità e responsabilità locale.

 

- Dell'Ilva di Taranto abbiamo detto, e torneremo a dire […*]. Lì, il nodo gordiano non può che esser tagliato imponendo con la lotta, la rivendicazione e l'azione diretta, una separazione fra la questione dei mezzi d'esistenza, del loro «reddito», dalla prosecuzione del crimine continuato di una produzione che è comprovato essere avvelenata, velenosa, mortifera. Le ragioni della vita – non lasciarsi distruggere la salute, e avere i mezzi materiali per vivere – devono imporsi risolutamente, senza alcuna concessione. Costi quel che costi sul piano dello scontro, è evidente che tutte le altre ragioni – la «competitività», il patrimonio, le considerazioni economico-finanziarie e istituzionali, devono cedere il passo, ritrarsi, esser piegate.

 

- C'è poi il suicidio di Giuseppe Burgarella (l'operaio edile, sindacalista Filcea, disoccupato da anni, che si è suicidato tenendo in mano una copia della Costituzione e lasciando scritto che senza il lavoro non aveva dignità, e dunque si toglieva di mezzo...). Occorre un'offensiva che metta in luce natura e cause dirette e indirette, materiali e morali, di questo assassinio : materiali e ''morali'', a tenaglia. Occorre contrastare, col massimo di virulenza, la propaganda infame dell'ideologia del culto del Lavoro [...*] brandita come bandiera dalle Sinistre, dalle connesse intellighentzsije martellata con goebbelsiana pertinacia. ''Lavorismo'' e ''statalismo'', su fondo di ideologia della naturalità, dell'eternità dell'economia – in senso proprio : vale a dire l'economia moderna, « economia politica », capitalismo – sono state la base iniziale del concatenamento di mutazioni mutagene che hanno snaturato il comunismo critico nel senso della sua riproposizione nel cuore del secolo XIX, seppellendo il senso della Comune di Parigi, leggendola con codici inadeguati, calcandola a forza su modelli pregressi come la Rivoluzione francese, seminando così le basi di una colossale contraffazione e malinteso, la ''rivoluzione come affare di Partito, di Stato, di élites'', condannando ad una continuità, ad una omologia esaltata da una coazione mimetica con le forme storiche che successivamente hanno incarnato relazioni di dominazione, di uso strumentale, di oppressione. Il secolo ventesimo è stato dominato dalle conseguenze a catena di tutto questo, con tutte le concrezioni ideologiche che il paradosso di quello che potremmo chiamare il ''©omunismo cràtico'' in luogo che ''critico'', la transmutazione di un movimento reale in vera e propria contraddizione in termini : un regime, un'ideologia, una dottrina e pratica economica, uno Stato e sistema di Stati, quale è stato il «socialismo reale», socialismo capitalistico di Stato, nelle più diverse varianti, fino all'inquietante ibrido dell' «economia socialista di mercato» della Repubblica popolare cinese dei giorni nostri. Si impone uno sforzo di radicale soluzione di continuità, di rottura ed esodo, a cominciare dal mentale, da tutta questa storia.

 

Oggi, il capitalismo reale, la forma ''neo-liberale, ultra-liberista'' della strutturazione della regolazione sociale, sembra essere una risposta gravida di catastrofe al fine-corsa della civilizzazione capitalistico-statale moderna, che ha secrèto le logiche dominanti la vita umana, e l'insieme della macchina-Mondo come macchina tecno-economica, storico sociale, materiale, mentale. La volizione inconfessata di questa forza impersonale, anonima e collettiva, è quella di non poter essere, e non potersi pensare, come anch'essa caduca, destinata a deperire e morire. Questo scatena la forza mortifera di un corpo che, non sopportando l'idea di una vita dopo di lui, ha il terribile riflesso di trascinare con sé nella distruzione e scomparsa ogni forma di vita esorcizzando il 'rischio' che essa possa sopravvivergli. Se possiamo leggere in filigrana questi scenarî, ne deiva l'idea, non tanto di tender l'orecchio aspettando una inevitabile ''ora X'', o piuttosto fase, concatenamento di processi sprigionantisi, certo però di tentare, nella vertiginosa 'povertà dei mezzi', di lavorare al fiorire, al costituirsi e radicarsi di forme di vita, di cooperazione, di azione che col massimo sforzo possibile siano altre, diverse, secessioni e momenti di contrasto, ''mine vaganti'', fermenti di vita di relazione, di comunanza autonoma, il più possibile sottratte alla gravitazione dentro il riprodursi di tutto quanto è oggetto delle rivolte di cui siamo, seppur come pulviscolo infinitesimo, partecipi. In questo senso, ogni cooptazione dentro illusionismi che occultino la radice delle cose, appannino e sterilizzino la critica, interpongano a pratiche comuni dirette l'intruppamento dietro alle illusionistiche ''chiamate'', comporta oltretutto la connivenza di fatto con concrete, puntuali infamie che i dispositivi istituzionali, la governamentalità e regolazione generale perpetrano. L'idea della legalità, dell'applicazione delle «regole», della «Costituzione più bella del mondo» come panacèa capace di far girare all'indietro la ruota che stritola, non solo è un gigantesco diversivo, ma costituisce una dottrina che ha una genealogia, una natura, una storia precisa : la legalità costituita come stato di fatto, che si pone come intangibile, assoluta, autolegittimata fintantoché non la si cambi, è l'idea da «Stato etico» per la quale ogni deroga dall'applicazione obbediente, ogni obiezione, ogni resistenza, è illegittima e criminale.

 

Anche lo 'scarto' più ''camusiano'', la riserva, l'intralcio, il sabotaggio, il «rifiuto di eseguire un ordine che si ritiene iniquo», è stigmatizzata, interdetta e destinata all'esser punita. Nell'incedere di quella che si chiama «crisi» e che è piuttosto l'accelerarsi entropico di un finecorsa, la cui oscura consapevolezza, i conati di contrastarlo, fanno emergere una specie di caotico rush a un ''arraffo'' finale, lasciano emergere rigurgiti di vera e propria misantropia, scatenano quella che è stata chiamata «la rivolta dei ricchi contro i poveri», e una specie di allucinata razionalità delirante di volizione assolutistica e di vera e propria ''guerra sociale dall'alto'', con aspetti di ferocia non disgiunti da cupio dissolvi ''in nome collettivo'', l'oscura percezione di sfacelo, di catastrofe incombente porta ad infittire le maglie di un gigantesco esorcismo contro, non solo l'eventualità di resistenze, rivolte, insorgenze sovversive, ma anche le forme più minimali di conflitto, di affermazione di propri interessi vitali. Forzosamente legittimato e rilegittimato dalle successive «Emergenze», tutto un armamentario poliziesco e penale, preventivo e punitivo, viene continuamente affinato e reso più asfissiante. È così che si pretende regolare la vita sociale sempre più con misure e presenza di polizia, che si irrogano condanne demenzialmente elevate per banali comportamenti lesivi dell' «ordine pubblico», tra la protesta e forme di sabotaggio prevalentemente simboliche. È così che maturano condanne abnormi, come quelle per le giornate delle manifestazioni anti-G8 di Genova 2001, o per le tumultuose mobilitazioni del 14 dicembre 2010 o dei 15 ottobre dell'anno dopo a Roma. E' così che si banalizza il ricorso alla tortura, sulla base di « necessità che fonda legittimità ».

 

È così che (la tendenza non riguarda solo l'Italia, né solo questo, quello, quell'altro schieramento ancora), in Germania per esempio la Giustizia penale, in Italia soprattutto la macchina mass-mediatica di ''fabbricazione delle coscienze'', torna e ritorna sempre sulla demonizzazione della «violenza», definita sempre come male assoluto del «terrorismo». Solo per stare alla dimensione esperienziale di chi scrive qui, sono significative, come grado di abiezione, * il caso di un processo che si svolge a Francoforte, dove una donna di ottant'anni, Sonja Suder, è detenuta e sotto processo per fatti accaduti tra il '75 e il '78 del secolo passato, e * lo scatenarsi in pubblico, senza ritegno, di una rimessa in scena di dannazione persino di una persona morta, e di un funerale – come è stato nel caso di Prospero Gallinari. [...*]

 

Quasi che – come se – si cancellasse ogni percezione, cognizione, consapevolezza e anche responsabilità di costanti storiche, e si volesse inoculare, soprattutto nelle ''giovani generazioni'', l'idea di una sorta di «fine della Storia» che determinasse l'impensabilità e l'orrore assoluto per tutto quanto è stato risvolto costante, ineliminabile (e dagli uni o dagli altri alternativamente celebrato), della vicenda umana : vale a dire, l'elemento rappresentato da tutto quanto è ricompreso sotto la definizione generica di violenza. Un tale accecamento sembra troppo assurdo, decerebrato e incredibile : resta dunque l'ipotesi di una terribile inquietudine, e di un esorcismo preventivo. Rispetto a questa radicalità, intensità di questioni, appare di desolante inadeguatezza il ricondurre tutto a indignazione, protesta, denuncia, addirittura proponendosi di convogliarla nell'imbuto di un elettoralismo che, da motivi ispiratori ''anti-partitocrazie politiche'', trae occasione per proporre un esperimento di ''neo-politica parlamentare''.

 

Non siamo venuti qui per tenere un discorsino di testimonianza, o dottrinario. Men che mai a rischiare di fare (peraltro tardivamente e senza speranze di riuscire a spiegarci ed essere ascoltati) i dissuasori e i guastafeste.

 

Prendiamo il pretesto di quest'occasione in estremis, semplicemente per lanciare una 'pulce nell'orecchio', e ''prender data'' per una scommessa in differita. Se, nel prosieguo, nei prossimi mesi ed anni, si dovesse verificare che si conferma quello che nojaltri pensiamo ; se si dovesse toccar con mano il fatto che le cose continuano a peggiorare, e il male di vivere ad aumentare ; se si toccasse con mano che la questione non è di questa o quella «forza politica», di questa e quella politica economica, questa e quella variante della governamentalità ; che la questione non è prevalentemente ''italiana'' ; che il cuore, il nodo, non è l'illegalità, e dunque la panacea non è «la legalità», non è nella «Costituzione più bella del mondo», ma che sono ormai in qustione i fondamenti, i 'principi elementari', le forme costitutive, i rapporti sociali... [...*], ecco, quale sarebbe la risposta? Affidarsi ancora, una volta ancora, all'infinito, a dei ''Salvatori della Patria'', dei ''liberatori'', dei ''pastori'', supposti sapere, a cui dare delega, rappresenza ? Credere ancora alle loro crociate, alle loro 'Verità', riporre lì le proprie aspettative, oppure – quand'anche senza diagnosi, né prognosi, né certezze di senso, né sul sé e come si possa pensare di uscire da un labirintico incubo – raccogliere tutte le forze, e intelligenza, passione, capacità di cooperare, per capire, per fare, quantomeno dar vita a delle minuscole ''gocce di vita'', che contrastino il gelo e il deserto che avanza ? Prima che alcuni volonterosi benintenzionati modifichino il corso della 'terribile inerzia delle cose', sarà piuttosto quella a snaturare loro !!! Ecco, vorremmo ricordare questo, e lanciare la piccola sfida di una scommessa per il 'dopo'. Senza troppe speranze, ma senza alcun fatalismo rassegnato, e – al fondo – ignavo.

 

Milano, 19 febbraio 2013 Qualche comuNauta di passaggio...

 

[Notabene: nella prossima 'puntata', daremo anche i riferimenti su brani citati o parafrasati ]

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19 janvier 2013 6 19 /01 /janvier /2013 10:42

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E così, il “contadino nella metropoli”, se n'è andato anche lui. Sempre, di “un uomo che muore”, si potrebbe venire a dire tutto un concatenamento,
 una matassa anche aggrovigliata di cose, più o meno 'rapsodicamente' e senza l'assurda pretesa di poter racchiudere chicchessìa in un giudizio, una biografia, un ritratto.


 

Qui, tanti approcci possibili : “Prospero come Prospero”, la persona ;
Prospero nei contesti, sincronicamente e diacronicamente ; Prospero e
 le mutazioni d'epoca, di “spirito del tempo”, Zeit Geist ; Prospero 
nella lunga onda lunga, onda alta della sovversione, nei movimenti che 
nelle cronologie possiamo periodizzare come seguìti al Sessantotto, 
e

chiamare “Sessantotto lungo”, lungo un anno, un lustro, e poi due, e più ;
Prospero uno di noi in senso largo quanto si po', dando per buone in generale le auto-certificazioni ; Prospero e i più strettamente “suoi” ; Prospero e
nojaltri in senso stretto ; e in tanti potremmo scrivere di “Prospero e io”. Si potrebbe per esempio cominciare da un Brecht in cui aveva trovato 
qualcuno che gli dava voce : tra l' Elogio dell'agitatore nella
cassa di zinco e l' Ode del lavoro clandestino – «Bello è / levare la
voce nella lotta dclasse»...

 

Si potrebbe cominciare dal riaffiorare di ricordi, remoti, recenti...

Ma la rapsodìa
diverrebbe troppo lunga. La vita che tira per la giacca, strattona, la vita 'che tossisce tutta la notte e non vuol lasciarti dormire', le voci che sopravvengono incessanti spintonandosi accavallandosi, fatti e cose, sussurri e grida, chiamate, perentorie domande, interrogazioni, replicate da echi, mutazioni mutanti e mutagene, variazioni su tema,

che insorgono come voci-di-dentro : così il <tempo di nostra vita (…) – e qui per evitare equivoci, malintesi e illazioni di dualismi differimenti impliciti, introdurrei d'arbitrio una virgola – (…), mortale>, così, anche così si autodivora, tempus fugit, si restringe, fugge, sfugge, si consuma – il tempo, manca.

 

Nel dispotismo, insomma, crudele della misura del tempo, crono-metrìa, <invenzione degli uomini incapaci d’amare>, non c’è spazio più di tanto per piangere su noi stessi, che ad ogni addìo ci sentiamo un po’ più soli, e dobbiamo apprendere a elaborare il lutto della nostra mortalità di esseri di <razza umana>, specie di esseri parlanti, la cui singolarità – che è innanzitutto il “sapersi” e il “sapersi sapere”, a cominciare dall'inferenza della mortalità e dell'alterità,

sé/altro : conoscenza/dannazione, ché conoscere implica separazione, distinzione, divisione, strappamento –, la cui peculiarità è il guardarsi vivere sapendosi morir[n]e, strappati alla pienezza di un presente attanagliato dai tempi che lo riducono a una linea sottile inconsistente, come a zero.

 

Corrono così giorni prima che chi vi scrive, sempre più intempestivamente anche qui, riesca a “metter nero su bianco” almeno un po' di quanto aveva cominciato a 'traghettare' dalla girandola di emozioni e riflessioni, al foglio scritto : per tentare di mettere in comune, per quanto è possibile, la tristezza, il sentirsi ancora un po' più soli per la disparizione dalla scena – dal 'Gran Teatro del Mondo', e dalle proprie psico-cartografie più o meno immaginarie di territori esistenziali, di tutto un arcipelago, <gruppo di isole unite da ciò che le separa> – di un amico. E cominciare il lavorìo, il travaglio, travail, dell'elaborazione del lutto per quest'altro, ultimo addìo, per la morte – che per noi è la perdita, per lui la “fine-del-mondo” – di un compagno, amico, che evoca il pane spezzate condiviso, 'il pane e anche le rose' ; la lotta, le spine e le ferite, il <mi rivolto, dunque siamo>, la 'vita materiale' e il 'sogno di una cosa' – espressione che non è di Pasolini, è di Marx...

(strana sempre, sorprendente la <chimica mentale>, le reazioniconcatenate, associazioni, sinergismi...mi affiora alle labbra, finalmente, uno e poi un altro brandello dell'Urlo di Ginsberg<...sono con te a Rockland, dove venticinquemila compagni matti cantano tutti insieme le ultime strofe dell'Internazionale. Sono con te a Rockland...>, e il verso di Miguel Hernandez <alle anime alate delle rose […] ti chiamo, ché dobbiamo parlare di molte cose, compañero de l'alma, compñnero>).

 

{ A questo punto, per intanto, trascrivo qui di seguito delle prime riflessioni, che avevamo messo in circolo 'a caldo', poche ore dopo la notizia della morte di Prospero. Il tempo manca, ora – ma proseguiremo nei prossimi giorni il 'filo-del-discorso' }

 

Innanzitutto, di Prospero Gallinari, un paio di cose. Primo, quando nello <spazio pubblico> si discuteva della sospensione per gravissimi motivi di salute della pena che stava scontando, ciò che faceva ostacolo, come un macigno, all’applicazionedi questa misura di scarcerazione che la stessa legge prevedeva perqualsivoglia persona detenuta fosse in condizioni fisiche gravi ed arischio, era una considerazione extra-giudiziaria, d’ordineideologico-politico, di natura <sostanzialista>, a carattere“tipologico”, ad personam: la – diciamo pure – convinzione, asserita come certezza, dai Palazzi alle strade, da “scrittori e popolo”, che Prospero fosse stato attore diretto, anche materiale, dell’esecuzionedell’onorevole Aldo Moro.

 

[ In generale, sempre, questa tracimazione dal piano della <veritàgiudiziaria> – che nello stesso Diritto penale una volta mondanizzato e non più sorretto dalla presa in conto di un’ipotesi-Dio, non può che essere un <come se>, una congettura, più o meno decentementefondata, ma mai, “pe’ la contraddition che nol consente”, certezzaassoluta, talchè una sentenza è pur sempre un <dispositivo diproduzione di effetti di verità> – , questo spostamento ed irruzionesu quello detto nel léssico giuridico <verità storica>, è arbitraria,abusiva.

 

La più plebiscitaria, unanime <vox populi> non può mai, in punto logico, avere la valenza che in altri codici e paradigmi è attribuita alla <vox Dei>, una volta che questa sia stata dichiarata caduca, o comunque per convenzione tenuta fuori del campo normativo. Nel campo penale più che in ogn’altro, la più convincente delle deduzioni, la più forte delle verosimiglianze, non può essere asseritacome Verità assoluta, come la <Verità> : questo vorrebbe dire istituire, appunto, un <Ministero della Verità>...

 

Questa pretesa diveridizione assoluta, “obiettiva”, rende perciostesso falsità ogni illazione, nel momento stesso in cui la spaccia per certezza avventurandosi sul terreno di ciò che, in buona filosofia, è inattingibile, salvo ad una eventuale onniscienza – nello strettosenso teologico – che “non è di questo mondo”. ]

 

Come si è visto poi, con una successiva e ultima approssimazione alla verità fattuale che è stata omologata dalla stessa parola finale sulpiano della ricostruzione e decretazione giudiziaria della “verità” inpunto di fatto, nel caso specifico l’illazione aveva un contenutofalso. Ebbene, nell’altalena di un’ipoteca radicale sul suo destino –questione “di vita o di morte” in senso stretto e immediato, a dire ditutte le perizie mediche –, Prospero Gallinari non si lasciò mai estorcere alcuna confessione d’innocenza.

 

Senza alcuna iattanza,vociferazione altisonante, enfasi grandiloquente sui bordi delle economie narcisistiche del “Guerriero” e del “Martire”, dell’eroismostile <capace di morire di mille ferite pur di disarcionarel’Imperatore>, del sacrificio, e poi dell’auto-identificazione comevittima. Semplicemente, un po’ come il<Bartheleby di Melville, Prospero taceva o rispondeva di non aver nulla da dire, <I’ld prefernot to>.

 

Esprimeva un rifiuto di entrare nella dialettica dell’Innocenza e della Colpa. E anche dopo, non ritenne, pur incalzato da domande che trasudavano innanzitutto stupore come di fronte a un qualcosa d’impensato e impensabile, non aggiunse una mezza parola che potesse anche semplicemente validare l’ipotesi affermatasi e non fatta oggetto di confutazione alcuna. La cosa parla da sé, non richiede commenti.

 

Secondo. Prospero che, secondo testimonianze molteplici, convergentie al di fuori della minima ombra di sospetto di logica utilitaristica,perché fuori di ogni possibile “mercato penale”, mercato “delleGiustizie e delle Grazie”, delle punizioni e delle indulgenze, aveva pianto, non solo salutando un’ultima volta Aldo Moro, su questa morte. Viene in mente la tragedia, etica, logica, del rompicapo, del vero eproprio <dilemma morale>, della <Canzone di Piero> di De André. Inquel caso, dentro il carattere cogente come forza di gravità di un’inimicizia in quel caso prescritta, comandata e subita, ma comunque materialmente vigente, stato-di-fatto, il soldato Piero esita e non spara per primo.

Non già per distrazione, per grandezza o grandezzatad’animo, o altre Elette virtù (in paradigmi diversi da quellodell’egocentrismo parossistico del patriottismo, dei patriottismi“eguali e contrari” il cui manifestarsi perfettamente all’unisomo nonpuò che, perciostesso, divenire massacro) : semplicemente, per un personalissimo egoismo, che gli renderebbe insopportabile <vedere gliocchi di un uomo che muore>, sopportare lo sguardo di uno che muore per tua mano – è tutto.

 

Ora, la Storia – soprattutto quella per narrazioni di Grandi eventi,è piena di chi per “interesse privato” e propensione istintuale,radicata nella disperata lotta per la sopravvivenza, nella dedizionealla predazione, alla sopraffazione, all’uso strumentale, al comando,al possesso, fino all’annichilazione d’altrui.

Chiunque abbia praticato la decisione, l’impresa, il governo, il comando, ha preso su di sé la responsabilità terribile di causare,direttamente o indirettamente, la morte d’altrui. Condottieri, profeti, fondatori di città e d’imperi, sovrani…

 

Nelle forme moderne in cui tutto questo appare più “automatico”, invisibile,“oggettivo”, “tecnico”, necessitante, “naturale”. <Non si governa senza crimine>, come nota Machiavelli nel Principe. […]. e Foscolo riferendosi al trono " alle genti svela. di che lagrime grondi e di che sangue".

 

Che <un morto sia tragedia e crimine, un milione di morti, statistica>, è frase terribile, può essere stolta se scagliata come ritorsione animata da manicheismo, auto-negazionismo e surrettizia“universalizzazione come Bene” della propria partigianità, ma è pursempre attualmente incontrovertibile.

 

Certo, questo vale anche per chi è ricorso alla violenza per moventi opposti, d’insorgenza contro tutto questo ; ma, dal nostro irriducibile punto di vita all'opposto di quello istituito e imposto come 'corrente', con una natura radicalmente diversa (sia pure contutti i benefici secondari, d’ordine narcisistica, che può motivarequesta condotta del ribelle).

 

Certo, non si sono mai viste rivoluzioni (e non solo quelle segnateda una fondamentale omologia e mimetiche, marcate dalla contraddizionein termini di una rivoluzione statale, ciò che ad avviso di chi scrivecondanna senza appello ad una eterogenesi dei fini e in unatrasformazione nel proprio più atroce contrario […] ; ma in generaleanche insurrezioni, guerriglie di resistenza) al netto del sangue.

 

Ciò detto, una distinzione di tipo etico si può fare, tra chi è dotato di riflessività, consapevole delle sue responsabilità, e non pretende – a mezzo della falsificazione delle propagande – di operare una trasmutazione alchemica che faccia diventare ciò che intrinsecamente è “male”, intrinsecamente “Bene”, “buono”(addirittura pretendendo di convincerne chi lo subisce) – e chi no.

 

Tra chi si trincera, si nasconde dietro l’invisibilizzazione per astrattizzazione “statistica” – tanto maggiore quanto più alto è il numero degli schiacciati e sterminati, più indiretta, invisibilizzata,la responsabilità, occultata da un concatenamento ferreo ma nonimmediatamente evidente di cause ed effetti, di decisioni econseguenze –, e chi non sfugge il senso tragico della propriaresponsabilità.

 

Tra chi “manda”, e chi “va”. Nell’emergere sempre più incontestabile di una corsa delle logiche istituite ad un crescente assurdo, con tutti i corrispondenti scenari,la ‘cifra’ etica di un Prospero Gallinari rende tanti irriducibili Soloni d’ogni taglia e bordo, dei sinistri e grotteschi nanerottoli.

 

Per intanto una frase : <Sarà difficile ridurre all’obbedienza chinon ama comandare>... […]

 

il 19 gennaio 2013, prima di partire per Reggio Emilia,

 

Oreste Scalzone, & qualche complice

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16 janvier 2013 3 16 /01 /janvier /2013 18:43

(ANSA) - PARIGI, 15 GEN - ''Gallinari non si lascio' mai estorcere alcuna 'confessione d'innocenza''': lo ha detto all'ANSA Oreste Scalzone, ex leader di Potere operaio che conosceva bene l'ex Br morto ieri.   ''Quando si discuteva della sospensione per gravissimi motivi di salute della pena che stava scontando - dice Scalzone vissuto per molti anni a Parigi dove e' ancora residente - ciò che faceva ostacolo, come un macigno, all’applicazione di questa misura di scarcerazione che la stessa legge prevedeva era la convinzione, asserita come certezza, dai Palazzi alle strade, che Prospero fosse stato attore diretto, anche materiale, dell'esecuzione dell’onorevole Aldo Moro. Questa tracimazione dal piano della 'verità giudiziaria' a quello detto nel lessico giuridico 'verità storica' è arbitraria, abusiva. Come si è visto poi, nel caso specifico l’illazione aveva un contenuto falso''.   ''Nell’altalena di un’ipoteca radicale sul suo destino, questione “di vita o di morte” in senso stretto e immediato, a dire di tutte le perizie mediche - continua Scalzone - Prospero Gallinari non si lasciò mai estorcere alcuna 'confessione d’innocenza'. Senza alcuna iattanza, Prospero taceva o rispondeva di non aver nulla da dire. La Storia è piena di chi per “interesse privato” e propensione istintuale,  chiunque abbia praticato la decisione, l’impresa, il governo, il comando, ha preso su di sé la responsabilità terribile di causare, direttamente o indirettamente, la morte d’altrui. Condottieri, profeti, fondatori di città e d’imperi, sovrani. Una distinzione di tipo etico si può fare, tra chi è dotato di riflessività, consapevole delle sue responsabilità, e non pretende – a mezzo della falsificazione delle propagande – di far diventare ciò che intrinsecamente è “male”, intrinsecamente “Bene”, tra chi si trincera e si nasconde e chi non sfugge il senso tragico della propria responsabilità. Tra chi “manda”, e chi “va”.   ''La ‘cifra’ etica di un Prospero Gallinari - conclude Scalzone - rende tanti irriducibili Soloni d’ogni taglia e bordo, dei nanerottoli. Vorrei, oggi, dedicargli una frase di Rousseau : 'Sarà difficile ridurre all’obbedienza chi non ama comandare'''. (ANSA).

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15 janvier 2013 2 15 /01 /janvier /2013 14:26
Gallinari
Prospero Gallinari, militante delle Brigate Rosse per il Comunismo
Reggio Emilia, 1º gennaio 1951 – Reggio Emilia, 14 gennaio 2013

Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili.
BERTOLT BRECHT

Links:

 

da PensieriParole <http://www.pensieriparole.it/aforismi/vita/frase-75067>

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19 octobre 2012 5 19 /10 /octobre /2012 18:33

Dovevamo vedere anche questa. Nello spettacolo infimo, nell’orgia di sproloqui, vaniloqui, discorsi decebrati e decerebranti che scendono dai pulpiti più diversi, dovevamo assistere anche a questo:


Da un lato, padroni, padroni, come si diceva un tempo, “delle ferriere”, “del vapore”, e loro trombettieri, illusionisti, giullari, predicatori, opinionisti, Soloni e Solonesse, che di colpo scoprono la tragedia della perdita del posto di lavoro, di migliaia di lavoratori messi sul lastrico…

Si tratta di gente che, ovviamente, non batte ciglio se le migliaia di posti di lavoro che se ne vanno, i redditi delle famiglie ridotti dalla perdita del potere d’acquisto, dalla messa in cassa integrazione, dal licenziamento, sono dovuti a “superiori ragioni” del calcolo economico.

Lo si è visto per esempio nel caso alle latitudini in cui viviamo abbastanza estremo degli “esodati” : gli occhi, a cominciare da quelli di pietra della Fornero, si son tenuti asciutti.

“Dura lex [concedono, bontà loro], sed Lex!”, i cuori sanno essere di pietra, anzi, affiora un fiele, un rancore – solo in apparenza paradossale – un risentimento profondo di ricchi, di sovrastanti, contro poveri, sottoposti… Una sorta di misantropìa, come un’esportazione di eventuale traccia di disagio, da parte del “Vampiro” su quelli a cui succhia il sangue ; un brivido d’indignazione, un “Ma che cazzo vogliono questi straccioni? E come si permettono di volersi ingerire, a rischio di sporcare i nostri libri mastri con le loro manacce ?”.

Qui, invece, tutti esibivano preoccupato cordoglio. Perché è il Lavoro che gli sta a cuore, non il posto. Perché è il capitale fisso, il macchinario, la Fabbrica, e il Lavoro che possono spremere dalla forza-lavoro pagata sempre e comunque assai meno, per regola, per definizione, che il Valore che crea nel tempo di vita sospeso, alienato della giornata lavorativa, in cui essa, questa merce particolare, è <capitale variabile>, appendice della macchina, e la sua utilità specifica, <valore d’uso>, è secernere, produttivamente, <Valore>, nella forma di merci d’ogni tipo, forma, colore, utilità o disutilità, delle quali si realizzi profitto…

 

E abbiamo potuto e dovuto vedere Sindacati, nel ruolo di “sensali” al peggior livello della forza-lavoro, intruparsi dietro ai primi, facendosi cinghia di trasmissione, megafono dell’illusionismo demagogico del ricatto padronale.


 

E anche uomini e donne che nella morsa di questo ricatto si riducono ad una sola dimensione, risultante di una schisi, dimentichi della loro complessa interezza umana, sono ridotti ad avvitare la morsa che li schiaccia, come costretti a scegliere tra il pane e il respiro…

 

Di fronte, abbiamo visto AnimeBelle, compassionevolmente piegate su un’altra riduzione brutale, sui <lavoratori> come <cittadini>, sostenere le – per altro fondatissime – ragioni della difesa della salute di tutti, dell’ambiente, della respirabilità, della speranza di vita e della sua qualità, sostenere una chiusura più che sensata e urgente di una fabbrica di veleno e morte anche oltre la misura “normale”, senza fare lo sforzo di pensare come, contestualmente, andava studiata una modalità adeguata al problema “sociale”, al concretissimo, corporale problema dei mezzi di sostentamento per un’esistenza che non sia funestata dall’incubo, dal dover maledire il fatto d’esser nati.

 

In mezzo, stolti o furbastri che strombettavano di <angoscioso dilemma>, di vero rompicapo, di tragica contrapposizione d’interessi tra gente comune…

 

Ma, è possibile subire il ricatto assurdo di chi è come se ti dicesse, “Sei libero di scegliere : o mangi, o respiri. O il pane, o la salute – tua, dei figli tuoi e degli altri, della terra dove vivi…” ?

 

Ci pare di dover dire che non si è sentita abbastanza, e comunque non abbastanza netta, chiara, nitida, senza sbavature, una parola d’ordine immediata, che potrebb’essere un manifesto di lotta :

Operai in libertà dal lavoro, a salario pieno a tempo indeterminato.

La chiusura immediata di quella fabbrica particolarmente nociva, fabbrica di morte, per quanto riguarda gli uomini e le donne <operai>, <lavoratori>, <salariati> è perfettamente, immediatamente fattibile.

 

Questa è, chiaramente, una forma di rivendicazione che reclama mezzi d’esistenza, nella forma oggi immediatamente configurabile di un reddito legato alla vita, ad un elementare primum, vivere! che non accetta di essere subordinato, piegato, reso compatibile col primato di altre ‘ragioni’, logiche, calcoli, interessi, strategie, <economie>.


 

Naturalmente, tutto ciò rinvia a contesti – innanzitutto di senso --, a presupposti, a conseguenze, che vanno ben oltre e che continueranno a fare oggetto di controversie d’ogni tipo, “fra tutti e tutti” ; nonché di scontro, di organizzazione d’interessi, su quello che è il terreno della molteplicità di conflitti, e anche d’inimicizie e guerre.

 

Intanto però, ci sembra a noi che questa, come dire, idea-forza, così, ‘nuda e cruda’, detta in modo brutalmente semplificato, in parole povere, sia il solo “realismo”, oltretutto, possibile : al di là di ogni giudizio, innanzitutto, reclamare

<lavoro> in nome di un illusorio <diritto al posto di lavoro> significa subire un mostruoso ricatto, illudersi che una sorta di servitù possa almeno salvare le briciole, e destinarsi a perdere, oltretutto, anche quelle.

(Lettera aperta, primo capitolo, CONTINUA )

  pomigliano.png

 Cantata anti-Marchionne a Pomigliano

La rivolta e la festa… La rivolta è la festa, la festa è – può essere –rivoltosa
“Fuori la fabbrica”, oggi le “tute bianche” in entrata e in
uscita hanno manifestamente rialzato la testa, sentendosi rincuorati.
C’erano degli amici, che alzavano la loro voce e i loro strumenti
nel contrappunto di un canto, ai cancelli della sempre più spettrale
carcassa semivuota dell’Alfa di Pomigliano (fabbrica, sempre più
“dissanguata” di operai, mandati ai reparti-confino come Nola,
cassintegrati, licenziati, minacciati del peggio, epperò che continua
a produrre Panda alla stessa norma, dunque spremendo i pochi che
restano, costretti dal dispotismo padronale a mezzo di sbirraglia di
capi e guardioni a Lavorare ognuno per tre, cioè a produttività
crescente – che vuol dire “jettà ‘o sang’…”).

Tra gli uomini e donne che entravano e uscivano, non un rifiuto del
volantino/lettera aperta dei “tendisti” di Pomigliano ai compagni di
Taranto e dell’ILVA (“Operai, l’Ilva è veleno/ via dalle officine
/liberi dal lavoro/e a salario pieno !” ). E non un volantino per
terra

La musica, le facce fraterne dei musicanti (Daniele Sepe, Enzo
Gragnaniello, James Senese, Toni Cercola, e operai vecchi del “Gruppo
operaio”, de “ ‘e Zezi”), la magìa del contrappunto del jazz
improvvisato, e i canti, evidentemente facevano sentire gli operai
meno soli, dimenticati e amari.

All’ uomm’e mmerda Marchionne (così definito da un artista, con
espressione sottolineata da applausi), Marchionne che è venuto solo,
con ministro Clini e altri tecnocrati al seguito ; venuto
all’improvviso, furtivo come un rapace, a spacciare a partners
brasiliani il suo know-how , il suo sapere e saper fare di mmerda --
il nuovo dispotismo postmoderno in fabbrica e nel mercato del lavoro
--, hanno risposto i canti, la vita, i pugni levati, gli interventi a
visom aperto.

Citazione di Modugno rivisitato (“Ti lamenti, ma che ti lamenti! /
piglia lu bastone e tira fora li denti !”), della canzone de ‘E Zezi
“Posa ‘e sord’ ”, de L’Internazionale riscritta da Franco Fortini, di
Nostra patria è il mondo intero…

Nelle stesse ore, a Napoli, gli operatori e operatrici sociali che
avevano imbandito una tavola con piatti vuoti, alla Miseria e nobiltà,
chiedevano non già ‘a fatica, ma reddito… Persino le suore mo’ si
incatenano per protestare.

Sintetizzando diverse voci di operai e altri compagni che hanno
preso la parola, ne esce un filo di discorso : <<
Noi vorremmo un’altra umanità, e la teniamo come orizzonte,
praticandola con forme di vita e di rivolta. Vogliamo un’umanità, per
cui aria, acqua, terra, frutti della terra, pane e rose siano sì beni
comuni. E la capacità, la potenza creativa dell’intelligenza di
ciascuno e tutti, sprigionata e non più mortificata nella forma del
lavoro , sfruttato, alienato, sotto comando, è pensabile. La forma,
invece, del lavoro e del consumo, che produce una sorta di umanità
tossicomane e frustrata, è quanto dobbiamo costantemente criticare e
praticamente smantellare.

Comunque, in questa società di mmerda, regolata, comandata
dalla logica del profitto, dunque della merce e del denaro, non
mendichiamo il lavoro fisso (cosa, per di più, velleitaria come non
mai, quando, come ora, viene occultata la massa crescente di lavoro
precario e al nero…).

Dobbiamo reagire, in controffensiva,
cominciando col rivendicare soldi, beni e servizi, cioè i mezzi
materiali per campare, mezzi di base per un’esistenza che non faccia
rimpiangere d’esser nati! Questo, qui, ora, su questo riunificando
lotte per la riduzione dell’orario e dei ritmi, contro la precarietà,
le divisioni e l’atomizzazione, la concorrenza fra noi imposta per
dominare. Su questo si può costruire una persistenza di scontro, che
non subisca il sopravvento delle logiche capitalistico-statali, ma
faccia vivere un bagliore di libertà, d’indipendenza, di capacità di
autonomia in comune, di comunanza>>.

All’iniziativa della “cantata” hanno partecipato anche altri
lavoratori, gruppi di precari, disoccupati e studenti, che tornavano
da blocchi stradali organizzati dagli operai in lotta dell’Ergom,
fabbrica in dismissione dell’indotto-Fiat.

Confederazione del lavoro privato COBAS, licenziati e cassintegrati
Fiat,Cobas Astir,
Lavoratori Bacini Napoli e Caserta, Area antagonista campana,
..&compagnìa cantando…

da Pomigliano, il 17 ottobre 2012
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28 septembre 2012 5 28 /09 /septembre /2012 02:17

Intervista di Camillo Giuliani

 

A prescindere dalla temperatura esterna, si prospetta un pomeriggio da autunno caldo a Cosenza. Il giorno dopo Renato Curcio arriva in città l'uomo nero, Stefano Delle Chiaie, e non sono pochi quelli che, da giorni, annunciano su internet manifestazioni per impedirgli di presentare “L'aquila e il condor”, il libro in cui il 76enne esponente della destra radicale racconta la sua versione su una stagione politica di cui fu (in)discusso protagonista. Ne abbiamo parlato con un altro primattore di quegli anni, Oreste Scalzone, fondatore di Potere Operaio. «È difficile trovare due uomini più agli antipodi tra loro», il suo commento iniziale. Nonostante abbiano in comune l'attivismo politico – su sponde e con metodi differenti – e una lunga latitanza all'estero per sottrarsi alla giustizia italiana, Scalzone e Delle Chiaie, il rosso e il nero, sono come due rette parallele che non trovano mai un punto d'incontro.


Cosa pensa di Delle Chiaie?
«Sono solito parlare in modo critico di sistemi e non di singoli, ma quando si tratta di uomini pubblici con responsabilità come le sue un giudizio è doveroso: credo – anche sulla base di un riscontro pratico, dettaglio sintomatico – sia un pessimo personaggio».
Quali riscontri?
«Lui e Mario Merlino hanno fatto circolare falsità quale quella che prima di Valle Giulia loro avessero preso contatto col Comitato d'agitazione d'ateneo alla Sapienza, e che quindi quella fosse stata un'impresa comune. Un episodio che mostra inequivocabilmente l'indole manipolatrice di questo personaggio che ama rimestare nel torbido».
I fascisti con Valle Giulia non c'entrano?
«Basta aver letto, che so... Malaparte, per sapere che in una piazza in tumulto può esserci di tutto. Certo è che se c'erano i fascisti, il movimento non se ne accorse».
Che differenza c'era tra ribelli di sinistra e di destra?
«Molti giovani, anche per opporsi a un antifascismo trasformatosi in regime, diventarono fascisti pensando di ribellarsi all'ordine costituito. La ritengo una forma, certo malintesa – un tragico equivoco –  di ribellione vera. Delle Chiaie con loro non c'entra, la cosa peggiore è che abbia lavorato per i servizi segreti del Paraguay di Stroessner».
Franco Piperno ha definito i terroristi “delle ottime persone, anche se hanno ucciso”. Che ne pensa?
«Condivido il suo giudizio per quanto riguarda coloro che, a torto o ragione, si ribellano all'ordine costituito, dal basso verso l'alto. Camus diceva che “non ci sono angeli di luce e idoli di fango; gli umani vivono così, a mezz'altezza”. Ma quando qualcuno si comporta in tutta la carriera come un gerarca dalla parte di coloro che schiacciano altri, non vedo come gli si possano concedere riconoscimenti di una qualche nobiltà, quantomeno d'intenti».
Ha letto “L'aquila e il condor”?
«Ci sono tante cose che non si riescono a leggere nella vita, mancanze che lasciano un rimorso, ma ammetto che difficilmente troverò il tempo di dedicarmi al libro di Delle Chiaie. Potrebbe anche avere un qualche interesse, tutto può essere. Ma la vicenda del Paraguay, ciò che si dice tra gli stessi fascisti di quest'individuo, il piccolo riscontro personale di cui sopra, mi fanno dubitare che in quelle pagine ci sia qualcosa di pregevole».
Scenderebbe in piazza per impedirne la presentazione?
«I movimenti sovversivi avrebbero ben altro da fare che impigliarsi in sceneggiate per vietare la parola a personaggi che converrebbe invece gratificare con un disinteresse e un silenzio eloquenti. Meglio sarebbe occuparsi di dare il fatto suo a gente più significativa, a partire dal dottor Marchionne».
Ha vissuto situazioni come quella che si attende per Delle Chiaie?
«Dopo il rientro ho ricevuto diverse contestazioni. All'università di Palermo lanciarono pietre contro le vetrate dell'aula dove si svolgeva l'assemblea, sembrava un cattivo remake del 16 marzo del '68 alla Sapienza. L'onorevole signorina Meloni andava straparlando  di “bombaroli”, imitata da un tale Volontè deputato Udc...la sinistra di Stato annuiva. Quelle contestazioni, però, avevano origine nelle stanze del potere, non c'erano folle che si riunivano spontaneamente. Spero che i compagni cosentini non finiscano a chiedere alla questura di vietare l'evento, sarebbe una vera contraddizione in termini!».
Perché nemmeno una polemica per l'arrivo di Curcio?
«Il generale Dalla Chiesa, strenuo avversario delle BR, disse di Renato che era “uno che andava, non mandava”, manifestandogli quel rispetto che si concede a un nemico, nel senso più alto del termine. Lo stesso rispetto che Cossiga mostrò per Prospero Gallinari o Maurizio Ferrari che oggi, dopo 32 anni di prigione, è di nuovo rimesso e tenuto in galera per manifestazioni di lotta da un piccolo Vichinskij  (l'inquisitore per eccellenza della Russia di Stalin, ndr) come il procuratore Caselli. Ecco, l'intero percorso di Delle Chiaie non mi sembra suscettibile di raccogliere un rispetto della stessa natura».
Delle Chiaie è un suo nemico?
«Qualcuno ha detto che si è, o si diventa sempre un po' alla misura del nemico che ci si sceglie. L'inimicizia, anche assoluta, è una relazione alta e non richiede di considerare l'altro un "sotto-uomo" – "Untermensch", termine squisitamente nazista – o un demone. Escludendo dunque la passione triste ed autolesiva del risentimento o della diabolizzazione, non è necessario, tuttavia, gratificare qualcuno che non la meriti di una relazione simile. Comunque, se oggi qualcuno vuole telefonarmi per avere un confronto pubblico tra Delle Chiaie e me sulla questione di Valle Giulia, accetto la sfida di buon grado».

Camillo Giuliani

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18 mai 2012 5 18 /05 /mai /2012 10:04

 

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Ascolta l’intervista con Oreste Scalzone

 

 

Abbiamo raggiunto nella sua casa di Parigi Oreste Scalzone per commentare con lui il testo della rivendicazione della F.A.I. in relazione all’attentato di Genova all’ a.d. di Ansaldo Nucleare Adinolfi. E’ sempre penoso rilevare, in queste occasioni, la trita retorica politica e massmediatica volta a vendere una ricostruzione degli anni della lotta armata come un’epoca di terrore generalizzato e diffuso, quando invece è pacifico che se in quegli anni l’aria era irrespirabile per qualcuno lo era certo per le classi dirigenti e l’apparato tecnico-intellettuale e massmediatico che le sosteneva. Tanto che gli accorati appelli dei magistrati (provenienza PCI, Caselli in testa) alla delazione nei confronti di chi flirtava con il lottarmatismo in fabbrica caddero quasi sempre nel vuoto. Altrettanto penoso è rilevare lo spazio abnorme che i media riservano a episodi simili, con opinionisti bulimici impegnati a spiegarci questo e quello, quando la violenza sistemica, la violenza del potere e dello stato, mietono quotidianamente migliaia di vittime. Ma si sa, e Oreste ce lo ricorda, “un morto è una tragedia, milioni di morti solo una statistica”. Il riferimento ideologico degli estensori affonda, nell’analisi di Scalzone, in quella tradizione anarchica che rifiuta e rifugge le lotte sociali (la lotta di classe tout court) come una dinamica interna al dominio del capitale che in qualche misura lo rafforza avendo la socialdemocrazia per orizzonte. Allo stesso tempo, l’azione e la rivendicazione che sicuramente sono parte di un percorso di rivolta contro l’economico, il tecnoscientifico, lo statuale e il societale, restano invischiate in un processo di mimesi verso un aspetto ben più antico antico del capitale stesso: la dialettica colpa-innocenza. Dialettica che ammorba la storia umana da millenni e che parla il linguaggio del dominio.


Il secondo aspetto di critica riguarda il passaggio della rivendicazione: “non consideriamo un referente i cittadini indignati per qualche malfunzionamento di un sistema di cui vogliono continuare a essere parte”. Qui Oreste sottolinea il fatto che nelle nostre società siamo ormai ben oltre il “discorso” di La Boétie e la servitù volontaria è diventata una sorta di compenetrazione, una consustanzialità tra uomo e capitale, uomo e dominio, che non lascia spazio a critiche e accuse che rimuovono e negano l’ambivalenza in cui, volenti o nolenti, tutti sguazziamo.
Il terzo aspetto di critica riguarda la scelta della vittima simbolica che col suo sacrificio nasconde il meccanismo ben più ampio e meno afferrabile di cui è parte (il consiglio di amministrazione, il capitale stesso). La vittima non è che un ennesimo capro espiatorio che funge da mito fondativo e identitario del gruppo (in questo caso la cellula che ha sparato).

 

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